C’è una sorta di strabismo del pensiero che sembra affliggere il sistema-vino in Italia. Da un lato le previsioni vendemmiali indicano una soglia potenziale di produzione che plausibilmente potrebbe ritenersi ottimale tra i 43 e i 45 milioni di ettolitri, come evidenziato il presidente Uiv Lamberto Frescobaldi in occasione del recente incontro al G7 agricoltura di Siracusa. Questo per pensare di non sovrabbondare con l’offerta sul mercato, evitando dunque di comprimere i prezzi. Dall’altro lato le ultime due vendemmie - penalizzate da fenomeni atmosferici nefasti, eventi climatici estremi, incremento di malattie in vigna - non hanno raggiunto quella soglia: l’annata 2023 è stata un vero disastro, con alcuni areali in ginocchio e produzioni più che dimezzate, ma anche l’annata 2024, pur in recupero, secondo le previsioni vendemmiali Uiv Assoenologi e Ismea (presentate a Siracusa in occasione del G7 Agricoltura) si ferma a 41 milioni di ettolitri.
Espianti, il ruolo del calo dei consumi
In questo binomio, che di per sé potrebbe risultare equilibrato agli occhi di chi segue da lontano il mercato del vino, si innesta però un terzo incomodo: la riduzione (globale e non solo italiana) dei consumi di vino e l’accumulo in cantina di giacenze di annate passate, delle quali sembra a tutti di doversi sbarazzare prima possibile un po’ per svuotare botti e vasche per la nuova vendemmia e un po’ per non mantenere fermo un capitale difficilmente gestibile.
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A questo punto i profeti del qui ora iniziano a tremare, proclamando la necessità di estirpazione di vigneti (ovviamente con corrispondenti contributi pubblici per l’impianto, non sia mai), come se entrare in campo con l’accetta fosse la soluzione a tutti i mali. È davvero così? Aprendo una riflessione meno estemporanea e capace di visione, dopo una drastica (e infelice) uscita pro-estirpazioni, dal confronto con gli operatori il ministro Francesco Lollobrigida ha moderato i termini e rilanciato su un differente utilizzo dei fondi che sarebbero utilizzati per sradicare vigneti.
Espianti, quanto mi costeresti
Sì, perché quando si parla di cancellare ettari di vigneto non è una questione di lana caprina o di scelte private. Perché i fondi comunitari e nazionali verrebbero “dirottati” dalla promozione alla distruzione. Uiv ha fatto un paio di conti su quanto costerebbe in termini economici e produttivi eliminare 30mila ettari pagando 4mila euro ognuno (questa cifra è mutuata dal piano francese, perché a oggi in Italia di cifre non si è parlato).
«Si spenderebbero 120 milioni di euro per togliere dal mercato circa 2 milioni di ettolitri sulle rese medie dei vari territori - ha comunicato pubblicamente Frescobaldi a Siracusa -. Intanto, con i ritmi di crescita del vigneto (1.600 ettari per anno circa), arriveremmo al 2030 con 650.000 ettari, capaci di produrre comunque 52 milioni di ettolitri nelle annate abbondanti, ma scendere a 35 milioni in quelle scarse come la 2023. Vorrebbe dire che il divario tra una annata abbondante e una scarsa potrebbe anche essere di 17 milioni di ettolitri, in difetto o in eccesso: ecco, io non so come si possa pensare di fare programmazione con questi salti mortali». Il presidente dell’Unione rimarca inoltre come «togliere 30mila ettari non serve automaticamente a calmierare le potenzialità del vigneto, ma sicuramente espone al rischio di shock in caso di annate scarse, sempre più frequenti negli ultimi anni». E poi, ha sottolineato dalla Sicilia, un tentativo è già stato fatto nel recente passato e il risultato non è stato un innalzamento dei prezzi sul mercato, anzi.
Espianti, il modello bordeaux
Eh ma i francesi…Già, perché il principale argomento su cui si basa l’entusiastica adesione alla teoria degli espianti di vigneti salva-mercato è appunto il percorso avviato in Francia per correggere il modello Bordeaux. Con un dispendio di un budget fino a 150 milioni di euro, il governo francese ha infatti deciso di compensare interventi di estirpazione principalmente nell’area che per decenni ha invaso il mondo con i propri vini.
Funzionerà? Difficile a dirsi, anche se il presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella non esclude che potrebbe aver senso applicare la misura in alcune aree viticole italiane. Non che la quantità sia necessariamente avversaria del bene. Perché, come ricorda lo stesso Cotarella, «se è vero che chi produce 400 quintali a ettaro penalizza chi lavora sulla viticoltura eroica, non ha senso fare generalizzazioni. Perché su un mercato come quello del Prosecco tanto si produce e tanto si vende, senza perdite di valore in cantina».
Espianti, lo spettro delle giacenze
C’è uno spettro che si aggira per l’Europa e pure in Italia: le giacenze. Fino a qualche anno fa poco considerate, oggi sono al centro del dibattito. E non perché il vino in cantina ci stia male, anzi. L’iniziale congelamento dei mercati legati alla pandemia del 2020 ha costretto molte cantine a tenere accatastate centinaia di migliaia di litri, per fortuna poi uscite a frotte tra 2021 e 2022, confermando che un anno in più di bottiglia non può che far bene a tutti i vini. Qual è allora il problema? Come segnalava a Italia a Tavola il segretario Uiv Paolo Castelletti «non si tratta di svendere per svuotare le giacenze, ma di vendere a valori buoni per portare ricchezza alla filiera. Solo gestendo accuratamente l’immissione sul mercato si possono tutelare contemporaneamente il viticoltore e il mercato stesso, tanto più in Italia dove non abbiamo grandi aziende e nemmeno grandi proprietà terriere».
Ecco allora il monito che lo stesso Castelletti ha lanciato da Siracusa ai consorzi di tutela. «Non mancano le norme che consentono di pianificare e limitare la produzione - spiega il manager - ma sono i consorzi che vanno stimolati per l’applicazione di una regolamentazione che deve partire dal basso, dai territori. Alcuni consorzi l’hanno fatto, qualcuno anche da decenni, ma non tutti sono stati in grado di frenare gli impianti e l’espansione della produzione. Gli effetti si vedono, perché oggi ci sono aree in cui il prezzo delle uve è bassissimo e il mercato non assorbe il vino».
Espianti, piangere sul vino versato
Pensare agli estirpi significherebbe allora piangere sull’enorme quantità di vino riversato negli anni sul mercato, mentre servono soluzioni praticabili. «Abbiamo speso poco meno di 300 milioni di euro tra 2009 e 2011 per estirpare 31mila ettari di vigneti - avverte Frescobaldi - soprattutto collinari e ad alta vocazione. Risultato? Abbiamo depauperato i territori e nel 2013, due anni dopo aver tolto l’ultimo vigneto, abbiamo prodotto la bellezza di 53 milioni di ettolitri».
Unione Italiana Vini propone allora un approccio differente, operando sulla riduzione reale delle rese dei vini Dop con eliminazione degli esuberi, sulla sospensione delle deroghe per le rese vini comuni da riportare a 300 quintali per ettaro, sull’attuazione di vendemmie verdi con incentivi più appetibili e sull’utilizzo di meccanismi come le riserve vendemmiali. In sostanza, se il sistema-vino italiano puntasse sulla qualità, potrebbe vincere la sfida. E proprio i più convinti sostenitori del finanziamento degli estirpi sono spesso grandi produttori dei cosiddetti “vini comuni”, la spina nel fianco dei vini a denominazione e quasi sempre una zavorra qualitativa per il mondo del vino.
Espianti, le opportunità del vigneto-Italia
Se il problema dell'eccesso di offerta rispetto alla domanda esiste anche per il vino italiano e un di riequilibrio è necessario, vira in positivo la voce autorevole del professor Luigi Moio, presidente dell’Oiv (Organizzazione internazionale della vigna e del vino). «Il vino italiano paradossalmente può avere un vantaggio in questa situazione - osserva in una intervista rilasciata a Vinonews24 - Lo dico da sempre, perché l'Italia è forse il paese che più di tutti al mondo dispone di vitigni storici, chiamati anche autoctoni, legati a diversi areali di produzione, quasi tutti con un ciclo vegetativo molto lungo. Riescono a resistere e sono per certi versi resistenti al forte caldo dei mesi centrali estivi, perché sono a maturazione tardiva e caratterizzati da una grande struttura tannica. Paradossalmente sorrido perché potrebbero essere i vitigni miglioratori del domani». Più che estirpare, servono dunque competenze agronomiche nuove e accurate attenzioni sulle dinamiche di immissione sul mercato.
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Alberto Lupini
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