L’Italia del coronavirus è un po’ come l’Italia del Giro d’Italia: a rimbombare e a colorare le pagine dei quotidiani e dei siti web non sono i nomi delle grandi città, ma quelli dei paesi di provincia che, poi, sono l’essenza del nostro Paese, da sempre. E allora Codogno diventa la capitale, Casalpusterlengo e Vo’ Euganeo le altre mete più conosciute all’estero. Altro che Venezia, Firenze, Milano e compagnia. E poi c’è Nembro (Bg), che per qualche ora i rumors hanno segnalato al mondo come zona rossa. Il paese da 11.500 abitanti della Val Seriana dove laboriosità, manifattura e ingegno (quelle realmente conosciute in tutto il mondo da decenni per via di eccellenze come Persico, Radici, Pigna) è stato cercato in lungo e in largo in ogni angolo del mondo per capire come mai il coronavirus avesse potuto attaccare proprio loro, i nembresi, che fanno della scorza dura, delle poche paranoie e dello stakanovismo il loro mantra.

Il centro del paese di Nembro
La notizia del codice rosso sarebbe rientrata poco dopo perché, come tutta la provincia di Bergamo, anche Nembro è in codice giallo. Ma il terrore nell’animo dei nembresi è rimasto. E allora: tutti barricati in casa, strade vuote, negozi vuoti, commercio fermo. Giusto una scappata all’alimentari per acquistare lo stretto necessario. Il primo a mettersi a letto è stato il sindaco Claudio Cancelli, risultato positivo al test, cosa che non ha fatto che aumentare il panico. Perché insomma, nei paesi di provincia il sindaco è ancora il sindaco e se si ammala lui c’è rischio che si ammalino tutti.
E allora la gente mormora, dallo spioncino della porta, facendo scorrere voci, dicerie, passaparola. “Mi hanno detto che l’amico di tizio è infetto, e quindi anche il fratello che però l’avevo visto con Caio e quindi sono tutti infetti”. L’andazzo è questo, tra verità e leggende. Lo può confermare
Ivan Morotti che a Nembro ha un laboratorio-negozio di oreficeria. «C’è apprensione - dice - anche se da una parte si cerca di sminuire la tensione e lasciare perdere. La gente per strada comunque non c’è. Si sentono tanti rumori che prima non era possibile percepire, di macchine, pochissime».
Se è vero che il silenzio è il miglior alleato della riflessione, è altrettanto vero che il coronavirus sta costringendo tutti a rivedere la propria routine e la propria inclinazione occidental-consumistica: «È pesante questa situazione - prosegue Morotti - se uno si pensa a fermare nell’intimo, arriva davvero a valutare la morte e ad una serie di cose che ti portano necessariamente all’essenza della vita reale. Si pensa sempre che basti andare in ospedale e prendere una pillola per guarire e invece prendiamo anche in considerazione in prima persona che possa non essere così».
Ivan Morotti
Un andamento altalenante quello degli umori che circolano in paese: «Il commercio è fermo totalmente - prosegue l’orafo - a parte i negozi alimentari tutto il resto è un mortorio. Io ho tenuto aperto perché volevo farmi vedere, dare un segnale. Però in paese hanno tutti paura, la cosa strana è che cambia ogni giorno l’andazzo. Prima c’era voglia di riprendere, mentre adesso siamo ritornati nell’apatia, c’è appiattimento anche emotivo, quasi rassegnazione. Si aspetta il fine settimana per i nuovi aggiornamenti, capire se si può tornare alla normalità, cosa che spero perché se non si riapre si muore. Secondo me riattivare l’economia e la vita sociale, farebbe bene anche alla gente ritrovare negozi aperti per poter circolare e ritrovarsi, anche gradualmente».
Ma i bergamaschi “magütt” dalla scorza dura, che fine hanno fatto? «La gente è in apprensione e non me l’aspettavo, ma è comprensibile, va detto. Prima c’era tutta questa onda mediatica della Cina, il virus sembrava una cosa lontanissima, ma quando è arrivato qui si sono perse tutte le sicurezze». Non resta che ritrovarle, anche gradualmente, ma cominciando alla svelta.