Smartworking senza fine: ecco il cambiamento di ristoranti e bar

Una ricerca sostiene che l'88% delle imprese vuole far diventare il lavoro da remoto una componente stabile. Il settore della ristorazione subirà inevitabilmente una rivoluzione. E che succede a Milano, dove si concentrano migliaia di aziende? C'è chi punta sulle lunch box, chi punta sulla qualità e chi dà modo di utilizzare il proprio locale come una sala riunioni

11 aprile 2022 | 05:00
di Guido Gabaldi

Lo smart working è fra noi e intende rimanerci. Una ricerca commissionata dall’Aidp (Associazione dei Direttori del Personale), che ha interessato 850 imprese, ha accertato che l’88% sta programmando di far diventare il lavoro in remoto una componente stabile delle relazioni aziendali. È poi da precisare, per cercare di inquadrare l’evoluzione dello scenario, “quanto” remoto lo si immagina: per il 38% delle aziende si tratta di due giorni a settimana, mentre il 14% pensa a un solo giorno. Negli altri casi, con percentuali minori, si va da 3 a 5 giorni, fino ad una presenza di un solo giorno al mese.


Una trasformazione radicale delle relazioni industriali, delle forme di socialità e della cultura del lavoro, certamente: e non solo all’interno, ma anche all’esterno della fabbrica e dell’ufficio. Come impatta lo smart working sulle attività commerciali e ristorative cresciute a rimorchio dell’urbanizzazione delle realtà aziendali? Esiste infatti tutto un mondo di negozi, bar e ristoranti che finora ha seguito le trasformazioni del tessuto produttivo, adattandosi a esso: e ora che succede? Ce la faranno bar e ristoranti a resistere a questa nuova rivoluzione? E che succede a Milano, coi suoi locali che fino a prima della pandemia servivano il pranzo a migliaia di lavoratori?

Lo smart working cambia il modo di fare ristorazione

Che lo smart working picchia duro, ci si passi la metafora: è difficile far fronte ad un cambio così repentino nelle abitudini di consumo di una massa enorme di lavoratori. Ne parliamo anzitutto con Aldo Cursano, vicepresidente vicario della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi), per avere un riscontro relativo a tutto il territorio nazionale.

Come va a incidere lo smart working sulle colazioni, sul business lunch, sull’attività quotidiana di bar e ristoranti?
Tutto questo è profondamente cambiato in pochissimo tempo: ci troviamo di fronte a nuove modalità di vivere il lavoro, con tutto il suo corredo di usi e costumi consolidati da decenni. Le imprese vedono scendere drasticamente la fascia di clientela nei due orari da lei citati, e ne soffrono. A me consta che per questi motivi un’azienda su due è a rischio, tanto per essere chiari.

Dunque, non stiamo assistendo alla ripartenza delle attività turistiche e produttive?
Siamo vicini a Pasqua e le previsioni sono favorevoli, anche in merito ai flussi turistici: staremo a vedere. Ma anche qui i cambiamenti sono negativi: sono venuti a mancare i mercati ricchi, gli ospiti che spendono di più, provenienti da Giappone, Russia, Cina, in parte anche Stati Uniti… tutto questo ha delle conseguenze, ovviamente. Si rivede un po’ di vitalità grazie al mercato interno, per fortuna.

Di fronte al crollo da lei descritto, quali sono le strategie per reagire?
Asporto e consegne: molte aziende hanno puntato sulla lunch box, nelle sue varie forme. Si tratta però di rimedi parziali, ché una scatola di cartone su due ruote non sostituisce in alcun modo il lavoro di un cameriere o di un barista, assunto e pagato per servire cento persone al giorno. Viene a sparire l’intermediazione umana, e questo ribalta tutti gli scenari: siamo di fronte a trasformazioni radicali delle città e delle modalità di produrre e consumare

Milano è al centro di questa grande rivoluzione

Se dall’ambito nazionale passiamo a Milano, punto di osservazione importante per la concentrazione di imprese e lavoratori a reddito medio-alto, possiamo toccare da vicino come la crisi abbia colpito una realtà florida. Fino a ieri, s’intende. Ne parliamo con Emanuele Sala, socio fondatore di Desco, ristorante milanese a due passi dal Duomo.
«La nostra clientela tradizionale è quella business, con elevata capacità di spesa: dirigenti, soci di studi legali, professionisti in genere - ha dichiarato - Ci frequentano (frequentavano) non solo a pranzo ma, in misura ridotta, anche nelle ore serali. In questo momento i numeri sono diminuiti moltissimo: anche coloro che bazzicano di più gli uffici, qui in centro, a volte spariscono per delle settimane, perché se ne vanno per lunghi periodi in posti più ameni di Milano, e continuano a lavorare da lontano. Lo chiamano distance working».

Ma stiamo parlando di cambiamenti definitivi?
In questi giorni si vede qualche piccolo segno di ripresa, ma non so dire se si tratta di una tendenza stabile: io credo che i livelli pre-pandemia non li rivedremo più. Un indicatore importante è l’imprevedibilità dei flussi: capita che in alcuni giorni si veda il tutto esaurito, il giorno dopo non c’è quasi nessuno: è un problema, per chi deve fare una programmazione economica. Da parte nostra stiamo cercando di allargare il bacino di utenza: abbiamo introdotto una formula bistrot, con menù più accessibili e meno costosi, cercando di non incidere sugli standard qualitativi. Di sicuro qualche contromossa ce la dobbiamo inventare: il ristorante è un’azienda, bisogna rispettare certi parametri di fatturato, se no si chiude.

C'è anche chi riesce a resistere allo smartworking

A Milano, sempre verso il centro ma in zona Porta Nuova, ci sono anche coloro che soffrono meno di altri i rovesci del destino: ci riferiamo al ristorante di Andrea Berton, uno stellato che in teoria dovrebbe rimanere vuoto, visto che di soldi ne girano pochissimi. La risposta dello chef, invece, è sorprendente.
«Non abbiamo risentito dello smart working: a pranzo abbiamo un menù business che varia spesso e non è nato per reagire all’emergenza, ma è sempre esistito. Le statistiche ci dicono, tuttavia, che i nostri menù degustazione tipicamente serali sono i più richiesti anche a mezzogiorno».

Berton, i riscontri avuti da altri ristoranti sono molto negativi …
Immagino, ma la crisi dipende sempre da una serie lunga di fattori: la posizione, il tipo di clientela, le aspettative, i prezzi. Pensi che a pranzo abbiamo visto perfino qualche leggero incremento, nonostante lo smart working. Il fatto è che in questi ultimi due anni la nostra clientela non è cambiata: posso anzi dire che chi un tempo classificavamo come frequentatore abituale torna più spesso, oggi. Questo ha compensato il calo dei flussi turistici, anche se ultimamente si vedono dei piccoli miglioramenti anche in questa fascia.

Allora lei ce l’ha una ricetta per resistere?
Lavorare con intelligenza e senza abbattersi, non saprei dirle altro. In questo periodo abbiamo modellato il menu, soprattutto, per rendere tutto più fluido e scorrevole. Ci siamo focalizzati sulle degustazioni, ma abbiamo lasciato la possibilità di estrapolare da quelle sequenze alcune ordinazioni alla carta. Questo ci aiuta molto nella programmazione degli acquisti di materie prime, e contribuisce a contenere i costi.

I locali si riorganizzano e diventano anche sedi di riunioni

Sempre alla ricerca di soluzioni ed ancore di salvezza, abbiamo interpellato Cristina Giordano, Chief Operation Officer di Cuore di Parma srl, la holding che controlla le tre insegne milanesi “Quore Italiano”, “Al Mercato Steaks & Burgers” e “Al Mercato Street”.


Dopo tante incertezze, il business lunch è in ripresa, nei vostri locali?
Posso dire di sì, soprattutto in queste ultime settimane, perché un po’ di gente è tornata in ufficio. Ma è anche cambiato il tipo di frequentazione; i nostri clienti ora hanno meno paura della vicinanza fisica e sono tornati. A volte fanno addirittura mini-riunioni nei nostri spazi, che si prestano a questo tipo di accoglienza.

Ma la “normalizzazione” dello smart working non inciderà negativamente sui vostri fatturati?
Abbiamo in qualche modo già ripensato la nostra offerta, potenziando il take away, il delivery e la rete wi-fi, in modo da offrire spazi di lavoro attrezzati a persone che rimangono a casa in smart working, ma hanno bisogno di riunirsi e lavorare a contatto. È chiaro che in questo siamo stati aiutati dalla nostra tipologia di orario lunghissimo, dalle 7:30 alle 23. La dimensione del consumo e del lavoro è cambiata, certamente, ma noi ci aspettiamo ancora altre evoluzioni: spesso lo smart working odierno le persone se lo giocano fuori dall’ufficio, muovendosi sul territorio. È a questo livello che la ristorazione deve imparare come proporsi, magari valorizzando la fascia oraria pomeridiana.

Locali che si trasformano in qualcos’altro, da ristorante a business center attrezzato; templi esclusivi della gastronomia che per resistere diventano sempre più esclusivi e rimangono aggrappati alla loro nicchia di mercato, che non intende rinunciare in nessun modo alla “sua” cucina stellata; bar che devono capire come servire meno turisti ricchi e più ragazzi squattrinati. C’è di tutto: questa ripartenza sembra davvero il caos della creazione, in cui le batoste arrivano dal buio e le trovate geniali spuntano dal nulla, come funghi su una spiaggia assolata. Non si possono minimizzare i problemi né sottovalutare le incertezze, presenti e future: ma sembra che il marasma socio-economico generalizzato contenga anche delle forze primordiali, in grado di generare soluzioni.

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Alberto Lupini


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